Spinoza

Secondo la decisione degli angeli e del giudizio dei Santi, bandiamo, scomunichiamo, malediciamo e cacciamo Baruch de Espinoza […] Sia maledetto nel giorno, sia maledetto nella notte, sia maledetto quando si posa, sia maledetto quando si leva, sia maledetto se esce, sia maledetto se entra […] A voi che siete fedeli al Signore, al vostro Iddio, che siate oggi benedetti, ordiniamo che nessuno abbia rapporti orali o scritti con lui, che nessuno lo soccorra, che nessuno rimanga con lui sotto un sol tetto, che nessuno gli si avvicini più di quattro passi, che nessuno legga uno scritto redatto o pubblicato da lui”.

Era il 27 luglio 1656, quando il bando di scomunica di Baruch Spinoza (Bento per gli amici) fu pronunciato nella sinagoga di Amsterdam. Bento aveva allora ventiquattro anni, era nato il 24 novembre 1632, ed era già stato ripetutamente invitato dai rabbini a non esprimere pubblico dissenso sull’interpretazione della Bibbia. I rabbini, per evitare lo scandalo di apostasia, gli avevano consigliato di frequentare le assemblee e la sinagoga e, soprattutto, di stare zitto. Giunsero a offrirgli una pensione annua di mille fiorini (l’equivalente di circa dodicimila euro) pur di farlo rientrare nei ranghi. Evidentemente, la permanenza nella comunità e la fedeltà di un giovane del talento e della cultura di Spinoza erano essenziali per il prestigio della comunità ebraica di Amsterdam. 

Ma, come Spinoza ebbe in seguito a dire, quand’anche gli avessero offerto una cifra dieci volte superiore, egli non avrebbe potuto accettare e si sarebbe comunque rifiutato di partecipare, contro coscienza, alle riunioni e ai riti della comunità perché non era un uomo incoerente e ipocrita.

In quel periodo, la tensione con la sua comunità era giunta a limiti insostenibili. Una sera mentre camminava intabarrato in un pesante cappotto nei pressi della sinagoga, Spinoza fu accoltellato da un fanatico religioso. La pugnalata non raggiunse il corpo di Spinoza, che s’era scansato, ma lacerò una parte del cappotto. Dopo questo episodio, Spinoza non si sentì più al sicuro ad Amsterdam e decise di ritirarsi in un luogo tranquillo dove poter continuare a studiare e a scrivere. 

Gli restavano da vivere ventuno anni (morì a 45 anni all’Aia il 21 febbraio 1677) che trascorse, alloggiando in camere in affitto, prima a Rijnsburg, poi a Voorburg, sobborgo dell’Aia, e quindi dal 1670 definitivamente nella stessa città dove visse sino alla sua morte mantenendosi con il suo lavoro di tornitore di lenti per telescopi e microscopi.

Spinoza fu fortunato a vivere in Olanda, a quei tempi un’isola di tolleranza nel tempestoso mare degli aspri conflitti e delle violenze religiose. A parte la proscrizione civile e morale e la regola autoimposta di usare cautela, Spinoza non corse grossi rischi. Immaginiamo cosa gli sarebbe successo se fosse vissuto in Italia: avrebbe fatto la stessa fine di Giordano Bruno arso sul rogo qualche decennio prima.

Se non proprio Spinoza, i suoi ascendenti avevano avuto modo di sperimentare “il calore dell’amore cristiano” dell’Inquisizione cattolica. Originari della Spagna, gli avi di Spinoza dovettero sottostare, insieme alla comunità ebraica di circa 800.000 persone, all’ordine di Ferdinando d’Aragona di convertirsi al cristianesimo o emigrare altrove. In molti si ‘convertirono’ al cristianesimo ma ben presto scoprirono che la conversione non li metteva al riparo dall’intolleranza fanatica: in migliaia furono arsi al rogo dall’Inquisizione spagnola. Un gruppo numeroso, forse 120.000 ebrei, emigrò nel vicino Portogallo: fra questi c’erano anche gli ascendenti di Spinoza. L’accoglienza di questo numeroso gruppo di profughi fu terribile: ventimila bambini furono sottoposti a battesimo forzato e duemila ebrei furono massacrati in un solo infame giorno a Lisbona. Le autorità portoghesi mostrarono di saper far meglio dei vicini spagnoli nel trovare e bruciare i nemici della fede, meritandosi, presumibilmente, il plauso di Roma. 

Nel 1590 la famiglia di origine di Spinoza finì nel mirino dell’Inquisizione. Incerto sul futuro che li attendeva in Portogallo, Isaac Spinoza, il nonno paterno di Bento, riunita la famiglia, fuggì verso nord, o, come riferiscono le fonti custodite negli archivi dell’Inquisizione, “scappò prima del perdono”. I suoceri di Isaac scelsero di restare in Portogallo e di ricevere il perdono che assunse la forma della prigionia e della tortura.

Ma torniamo al giovane Bento. Quali erano le sue idee che tanto turbavano i rabbini di Amsterdam? Bento, che aveva trascorso l’infanzia intento allo studio della Bibbia, con il passare degli anni era diventato un fervente studioso di Cartesio. Egli fece propria la massima del filosofo francese “Niente deve essere ammesso come vero, a meno che sia sorretto da valide ragioni” e non impiegò molto tempo a concludere che questa massima minava dalle fondamenta gran parte della Bibbia che tanto a fondo aveva studiato. Rispondendo a una coppia di presunti amici che erano invece spioni per conto dei rabbini, Spinoza ammise di rigettare la dottrina dell’immortalità dell’anima individuale e di ritenere che la Bibbia fosse opera umana e non divina. I rabbini certo non potevano tollerare che un giovane ebreo andasse in giro a insinuare dubbi nella mente della gente sulla Bibbia e l’immortalità dell’anima. 

Per gli ebrei dell’epoca, proprio come i cristiani di allora, simili idee erano spaventose eresie che gli ebrei punivano con la scomunica e i cattolici con il rogo.

Abbiamo visto prima che, a seguito della scomunica, insicuro nella sua città di origine, segregato dai propri conoscenti e preoccupato della propria incolumità, Bento aveva lasciato Amsterdam per posti più tranquilli dove dedicarsi in pace alla ricerca filosofica. Negli anni a Rijnsburg, a Voorburg e all’Aia, Spinoza condusse una vita semplice e frugale. Viveva in camere in affitto, si vestiva in modo ordinario, si accontentava di una dieta essenziale fatta di zuppe, latte, pane, burro e qualche boccale di birra. Quegli anni furono caratterizzati dall’attività artigianale e da periodi prolungati di solitudine pensosa e feconda. Lucas, uno dei suoi primi biografi, racconta che una volta, immerso nelle sue speculazioni filosofiche, Spinoza arrivò a stare per tre mesi interi senza uscire da casa. Però non era per natura un solitario ma un uomo di buona compagnia, onesto, affabile. Lo spirito penetrante e il senso dell’ironia lo rendevano persona amabile e affascinante. Teneva una fitta corrispondenza e frequenti incontri con amici ed estimatori che venivano anche da molto lontano per incontrarlo.

Nonostante avesse adottato il motto ”Caute”, cioè “sii prudente” o “agisci con prudenza”, nel 1670, Spinoza osò pubblicare in latino, peraltro anonimamente e con indicazione falsa dell’editore, il ‘Trattato teologico-politico’ dedicato alla critica della Bibbia e alla difesa della libertà di pensiero in uno stato democratico. I filosofi e teologi dogmatici non faticarono molto a individuare l’autore: feroci critiche e attacchi verbali si concentrarono su Spinoza da tutte le varie correnti religiose. Cattolici, ebrei, calvinisti, normalmente in feroce lotta tra di loro, concentrarono la loro innata intolleranza verso un solo uomo che si permetteva di mettere in dubbio la verità rivelata.  Liber pestilentissimus, blasfemo e pericoloso, pieno di abomini deliranti e di idee forgiate all’inferno, da seppellire subito nell’eterno oblio: queste furono le reazioni dei circoli intellettuali dominanti alla pubblicazione del trattato. L’autore era definito bestia esotica, stupido diavolo, cieco ciarlatano, sempliciotto mascherato e anche brigante assassino della ragione e della sana scienza. 

Ma accanto agli attacchi personali, un’altra strategia era messa in atto per evitare che Spinoza continuasse a turbare il quieto vivere del gregge e dei pastori. Già i rabbini della sinagoga avevano cercato di comprare la libertà di filosofare di Spinoza offrendogli un congruo vitalizio, ora è il potere politico a cercare di ‘silenziare’ il filosofo. Il Principe Elettore Palatino gli offre la cattedra di professore di filosofia in una delle più prestigiose università europee, quella di Heidelberg. Nella lettera di offerta dell’incarico si garantisce ‘ampia libertà di filosofare’ ma si chiede espressamente di ‘non abusare di quella libertà allo scopo di perturbare la religione pubblicamente professata’. L’incarico a Heidelberg sarebbe stato accolto con entusiasmo da qualsiasi professore di filosofia, ma non fu accettato da Spinoza. Nella risposta ferma e pacata, Spinoza scrive: ‘ […] io non so entro quali limiti debba intendersi compresa quella libertà di filosofare affinché io non sembri voler perturbare la religione pubblicamente professata […] per cui io non declino l’invito per la speranza di miglior fortuna, ma per amore della tranquillità che in nessun altro modo credo di potermi assicurare se non astenendomi dal pubblico insegnamento’.

A Spinoza non interessavano il successo, i soldi, gli onori, la vita agiata, quello che gli stava a cuore era la libertà di filosofare senza alcuna costrizione da parte del potere. 

Altri grandi filosofi erano invece ben inseriti nel sistema di potere dominante e non godevano di questa libertà. Prendiamo per esempio Leibniz e Hegel. 

Leibniz era al servizio del Barone Boineburg prima e del Duca di Norimberga poi. Da buon cortigiano si adeguava alle richieste del padrone di turno. Boineburg, per esempio, chiese una volta al suo brillante consigliere di mettere filosoficamente al tappeto i teologi protestanti che continuavano a stuzzicarlo per via della sua conversione al cattolicesimo. Leibniz, pur non essendo cattolico, prese carta e penna e stese una serie di saggi dal titolo “Dimostrazioni cattoliche” in cui difendeva tesi dottrinarie tipicamente cattoliche focalizzando la propria dissertazione sulla dottrina della transustanziazione (il pane e il vino che diventano corpo e sangue di Cristo). Verrebbe da chiedersi quanto in questi scritti sia libera espressione della mente del filosofo e quanto invece sia il ‘deliverable’ del contratto cioè l’esito del lavoro commissionato dal suo padrone. 

Hegel, titolare della cattedra di filosofia all’università di Berlino, stava sempre attento a rimanere nel recinto della correttezza teologica-politica. Egli aveva tratto lezione da quanto accaduto al suo amico Fichte che era stato rimosso dalla cattedra di filosofia a Jena perché accusato di scrivere filosofia atea. Forse è proprio per non farsi capire dai teologi dogmatici ficcanaso, che Hegel scriveva in modo esoterico, oscuro e incomprensibile. 

L’astrusità degli argomenti di Hegel è ironicamente evidenziata da De Sanctis nel saggio in forma di dialogo ‘Schopenhauer e Leopardi’, in cui appunto, è esposta l’opinione di Schopenhauer secondo cui per istupidire un giovane non bisogna far altro che dargli in mano un libro di Hegel, e quando quello leggerà che l’essere è il nulla, il trascendente è l’immanente, l’infinito è il finito e che il generale è il particolare ( … e che 1 è 0, aggiungo io) finirà con l’andare all’ospedale dei pazzi.

Ma torniamo al nostro Bento Spinoza. 

Considerate le virulente reazioni al suo Trattato teologico-politico, Spinoza si guardò bene dal pubblicare la sua principale opera, il suo capolavoro, l’Etica. Una volta fece un timido tentativo di dare alle stampe il manoscritto. In una lettera a Henry Oldenburg, segretario della Royal Society di Londra, così Spinoza racconta il tentativo fallito: ‘ […] il 22 luglio del 1975 (due anni prima della morte) partivo per Amsterdam con l’intenzione di consegnare al tipografo il libro di cui vi avevo scritto (l’Etica). Quand’ecco spargersi ovunque la notizia che un mio libro su Dio era sotto torchio e che io mi sforzavo di dimostrare in esso che Dio non esiste. […] Informato di ciò da alcuni uomini degni di fede, i quali aggiungevano che i teologi mi tendevano insidie in ogni modo, ho deciso di sospendere l’edizione che stavo preparando, in attesa di vedere come si mettevano le cose.’ 

Non gli restava molto tempo per ‘vedere come si mettevano le cose’. Già gravemente malato di tisi, forse a causa della polvere di vetro respirata per tanti anni molando lenti, Spinoza moriva, in quasi completa solitudine, all’Aia il 21 febbraio 1677.

Luigi Di Bianco

ldibianco@alice.it