Kant. Libertà e Responsabilità

E’ molto interessante vedere come Kant affronta il problema del libero arbitrio partendo dall’idealismo trascendentale. Egli distingue fra:

  • il mondo fenomenico a noi familiare fatto di spazio e tempo e in cui valgono le leggi della natura e dove tutti gli eventi appaiano governati dalla concatenazione causa-effetto
  • la ‘cosa in sé’ del mondo noumenico dove non ci sono né spazio né tempo e quindi neanche la causalità, cioè la sequenzialità causa-effetto.

Secondo Kant, io stesso sono contemporaneamente: (1) un Ente Fenomenico che appare come corpo e mente nello spazio per un certo tempo; (2) un Ente Noumenico immateriale che esiste fuori dello spazio e del tempo.

Qual è la correlazione tra il mio Io Fenomenico e quello Noumenico? Gli studiosi di Kant non concordano sulla risposta da dare a questa domanda. C’è chi dice che le due realtà sono due aspetti della stessa cosa (interpretazione dei due aspetti) e chi dice, invece, che si tratta di due enti distinti e separati (interpretazione dei due oggetti). Lasciamo stare, per il momento, questo punto controverso.

La distinzione tra realtà fenomenica e realtà noumenica è alla base del ragionamento di Kant sul libero arbitrio. Nell’ambito del mondo fenomenico, in base alla ‘ragione teoretica’, Kant nega che ci possa essere il libero arbitrio.

Partendo dall’esempio di un uomo che commette un furto, Kant attacca la posizione ‘compatibilista’, secondo la quale una persona è libera quando la causa prossima di una sua azione nasce al suo interno, mentre non è libera se l’azione è causata da fattori esterni. Secondo il ‘compatibilismo’, il ladro che ha deciso liberamente, al suo interno, di commettere un furto è responsabile a tutti gli effetti di fronte a Dio e all’uomo dell’azione che deriva da questa decisione.

Kant non è d’accordo e fa notare che se la decisione del ladro è un fenomeno naturale che si verifica nel tempo allora deve essere l’effetto di qualche causa precedente. (In questo caso il fenomeno naturale di cui si parla è la particolare configurazione che miliardi di neuroni assumono nel momento della decisione nel cervello del ladro).

Questa è una parte essenziale della visione del mondo di Kant e si fonda sulla legge ‘a priori’ della categoria di causa-effetto: ogni evento ha una causa che esiste in un momento precedente. Tutti gli eventi naturali avvengono nel tempo e sono completamente determinati da catene causali che si estendono dall’attimo dell’evento a ritroso nel passato remoto. Quindi, secondo la ‘ragione teoretica’ o ragion pura kantiana, l’Io Fenomenico non può avere il libero arbitrio perché in natura tutto ciò che accade (… compreso il flusso elettrochimico nel cervello che porta a prendere una certa decisione) è determinato in maniera causalmente necessaria da una catena ininterrotta di eventi radicati nel passato.

Per Kant, il cuore del problema è il tempo. Il motivo è molto semplice: se decido nel presente ma la causa della mia decisione è nel passato allora io non sono in controllo della causa, cioè non sono libero, nel momento della decisione. Se la scelta del ladro di commettere il furto è un evento naturale nel tempo, allora deve per forza essere l’effetto di una catena causale che dall’istante del furto si estende nel passato. Ma ora, nel presente, nel momento di commettere il furto, il ladro non ha alcun controllo sugli eventi del suo passato. Una volta che il passato è passato, nessuno può cambiarlo.

Contestando il compatibilismo, Kant afferma che il fatto che la causa del furto sia nata all’interno del ladro non significa niente. Il vero problema non è se la causa della sua azione è interna o esterna al ladro, ma se la causa è sotto il suo controllo nel momento della decisione, cosa questa non possibile perché, come abbiamo visto prima, la causa è sempre nel passato. Quindi, se la decisione di commettere il furto è un evento naturale nel tempo, allora il ladro non agisce liberamente, o meglio, non ha alcuna possibilità di agire diversamente.

Se l’azione di commettere il furto non è nel suo controllo, allora, mentre può essere utile punire il ladro per modellare il suo comportamento e per influenzare gli altri, tuttavia non sarebbe corretto dire che la sua azione è moralmente sbagliata secondo i parametri di una ipotetica morale assoluta scritta in cielo. Giustezza o scorrettezza morale si applicano solo agli agenti liberi che sono in grado di controllare le loro azioni, cioè che hanno in loro potere, nel momento della decisione, la capacità sia per decidere per il bene, sia per decidere per il male. Ora, se l’agente fenomenico che agisce nel tempo e nello spazio, non è libero perché non è in controllo delle cause della sua volontà che affondano nel passato, come si può fondare una morale basata sulla responsabilità?

Il problema che si pone di fronte a Kant sembra insormontabile.

Da un lato, la razionalità dell’ordine naturale basato sulla causalità gli mostra che il libero arbitrio non può esistere. Dall’altro egli ha la necessità di ‘porre’ il libero arbitrio per dare un senso alla responsabilità dell’uomo nei confronti degli imperativi categorici derivanti dal concetto tradizionale di morale assoluta, trascendentale, ‘scritta in cielo’. Non è estranea a questo concetto di morale la rigorosa educazione religiosa che Kant riceve, prima, dalla madre, esaltata seguace del rigoroso ‘pietismo’ luterano, e in seguito, dall’età di otto anni fino ai sedici anni, dal pietista professore di teologia del ‘Collegium Fridericianum’.

Vi è sempre in Kant, come in Lutero, qualcosa che ricorda il monaco, il quale, anche uscito dal chiostro, non può tuttavia cancellarne da sé le tracce. ’ (Friedrich Schiller)

Cresciuto alla scuola del pietismo tedesco e influenzato dal mito del peccato originale, Kant parte dal presupposto che esiste nell’uomo un ‘male radicale’ ossia la tendenza, radicata nell’umanità in quanto specie, a deviare dalla retta via della moralità e della coscienza morale. Per Kant è assolutamente necessario che l’uomo possa determinarsi con il libero arbitrio al bene perché, altrimenti, sarebbe spinto naturalmente al male: ‘la radice del legno storto dell’umanità è malvagia’. Malgrado tutto, malgrado il ‘male radicale’, Kant tiene ad affermare che la legge morale e il suo carattere di obbligo inderogabile, perentorio e sacro, è insita nella coscienza soggettiva di ogni singolo uomo e precede la libertà di fare il bene o il male.

Il problema, per Kant, è allora è quello di ‘porre’ la libertà come necessità assoluta. Ma come mettere d’accordo la negazione del libero arbitrio nella causalità naturale e l’esistenza del libero arbitrio nella vita morale? Con spregiudicata disinvoltura, Kant mette in secondo piano, anche se non rinnegandola, la ‘ragione teoretica’ e propone una preminente ‘ragione pratica’ costruita intorno alla morale cristiana ereditata dal Medio Evo.

E’ Kant stesso che ammette ‘ho dovuto negare la conoscenza per far spazio alla fede’.

Essenzialmente, Kant dice due cose: (1) la conoscenza empirica del mondo naturale è solo illusoria, è una conoscenza delle apparenze, non di come sono veramente le cose in sé; (2) come sono le cose in sé? Non è dato sapere perché esse abitano un regno inconoscibile senza tempo e senza spazio. In questo regno ignoto, misterioso e oscuro, Kant ci mette il libero arbitrio.

Ovviamente questo è molto comodo: se si mette il libero arbitrio nel regno dell’imperscrutabile, non sarà più possibile confutarlo o provarlo e ci sarà spazio, quindi, per l’ipotesi di libertà che Kant si prepara a presentarci. Limitare la conoscenza alle apparenze e relegando la cosa in sé nel regno dell’inconoscibile garantisce che sia impossibile confutare affermazioni su Dio, l’immortalità dell’anima e il libero arbitrio che possono essere invece giustificate da argomenti morali. In questo modo il determinismo della scienza non minaccia più la libertà richiesta dalla morale tradizionale, perché la scienza e quindi il determinismo si applicano solo alle apparenze del mondo fenomenico, mentre rimane spazio per la libertà nel regno delle cose in sé, dove si trova l’Io Noumenico.

Il succo del discorso è che non possiamo sapere se siamo liberi perché non possiamo sapere nulla delle cose in sé, ma ci sono motivi morali particolarmente forti per credere nella libertà umana come fattore essenziale di una sana vita sociale. Nell’azione umana di ogni giorno e dell’attività moralmente valida, è ‘pratico’, cioè ‘utile’, che l’uomo creda nella libertà nonostante che questa sia negata dalla ‘ragione teoretica’.

L’obiettivo di Kant è di mostrare alla gente comune che esiste la libertà perché solo l’esistenza della libertà, nel senso di capacità di fare altrimenti, può giustificare una valutazione morale. Egli afferma la libertà per promuovere l’ubbidienza da parte della gente comune a una legge morale assoluta, vincolante. In quest’opera egli trova un grande alleato nella nitida percezione della libertà che tutti noi abbiamo, al punto che: ‘noi siamo talmente sicuri della libertà che è in noi, che non vi è nulla che conosciamo in modo più evidente e perfetto’ (Cartesio).

Come fa Kant ad andare oltre la conoscenza della ‘ragione teoretica’ con argomentazioni valide? Semplice, se il problema per la libertà è il tempo, occorre liberarsi del tempo ricorrendo all’idealismo trascendentale. Per l’idealismo trascendentale c’è un mio Io Fenomenico che agisce nel tempo e nello spazio ma, nel regno inconoscibile della cosa in sé, c’è anche un mio Io Noumenico che è fuori del tempo.

Secondo Kant il mio Io Noumenico non è soggetto alle leggi dello spazio-tempo, è svincolato dalle leggi deterministiche della natura ed è pertanto libero. Tornando all’esempio del ladro si può dire che la decisione volontaria di commettere il furto è un effetto immediato, fuori del tempo, di una ‘causa prima’ incausata, di origine noumenica. Secondo questa teoria, all’agente noumenico è riconosciuta la capacità ‘divina’ di iniziare nuove catene causali. E cosa fa nel frattempo l’Io Fenomenico? Da spettatore passivo delle apparenze, non gli resta altro da fare che ammirare le meraviglie di cui è capace l’Io Noumenico e dare attuazione alle sue direttive.

Il fisico Niels Bohr, uno dei fondatori della meccanica quantistica, una volta ha detto che se non ci vengono le vertigini al pensiero delle stranezze della teoria quantistica allora non l’abbiamo veramente capita. Lo stesso possiamo dire per Kant: se il pensiero kantiano non ci fa venire le vertigini, allora non l’abbiamo capito veramente. Io, di tanto in tanto, riesco a sbirciare nell’abisso del pensiero kantiano … mi vengono le vertigini … ma subito mi ritraggo per tornare sul terreno sicuro del realismo.

Rimanendo sul terreno sicuro del realismo empirico, le perplessità prendono il sopravvento. Cos’è il libero arbitrio per l’Io Fenomenico se la libertà è una proprietà dell’Io Noumenico? Il libero arbitrio dell’Io Fenomenico è solo apparenza, una rappresentazione virtuale generata dal nostro apparato conoscitivo; è una mera illusione come l’Invisibile Unicorno Rosa (capace di essere invisibile e rosa allo stesso tempo) o la teiera volante di Russell che gira intorno al sole. Non si può dimostrare che la teiera volante non esiste perché è troppo piccola per essere vista anche dal telescopio più potente ma è da imbecilli desumere da questo che la teiera esista realmente. La stessa cosa vale per il libero arbitrio noumenico.

Ma ammettiamo come ipotesi l’esistenza del libero arbitrio e cerchiamo di capire da dove viene fuori e come si trasferisce all’Io Fenomenico. Per la verità, questo tipo di analisi non sarebbe possibile perché, per noi, il mondo noumenico è assolutamente inconoscibile. E’ lo stesso Kant che dice: ‘quale possa essere la natura degli oggetti considerati in sé (l’Io Noumenico) ci rimane interamente ignoto ‘. Io penso però che sia lecito cercare di formarsi un’idea di come emerge il libero arbitrio dal regno dell’inconoscibile e come interagiscono l’Io Noumenico e l’Io Fenomenico.

Nell’avventurarmi su questo terreno particolarmente ostile mi muovo partendo dalle due interpretazioni dell’idealismo trascendentale che ho anticipato in apertura: (1) l’interpretazione chiamata dei ‘due aspetti’ (l’Io Noumenico e l’Io Fenomenico sono due aspetti della stessa cosa); (2) e quella dei ‘due oggetti’ (l’Io Noumenico e l’Io Fenomenico sono due enti distinti e separati).

Ora, se l’Io noumenico, essendo fuori del tempo e dello spazio, è completo ed eterno mentre l’aspetto fenomenico è transitorio, fuggevole, nasce, vive e muore nel tempo, sembra allora che l’interpretazione dei ‘due aspetti’ sia improponibile. L’Io Noumenico e l’Io Fenomenico non sembrano due aspetti della stessa cosa. Sembra allora che, nella ricerca sull’origine della volontà, l’interpretazione dei ‘due oggetti‘, la separazione dei due enti (Io Noumenico ed Io Fenomenico) sia più appropriata ed efficace dell’interpretazione dei ‘due aspetti’.

Nella prospettiva dell’interpretazione dei ‘due oggetti’, la mia prima perplessità riguarda proprio la responsabilità. Se solo l’Io Noumenico è libero e se il libero arbitrio è requisito irrinunciabile per la responsabilità morale, ne consegue che l’Io Fenomenico non è moralmente responsabile. Perché allora la responsabilità e l’eventuale punizione devono ricadere su quest’ultimo?

Questa domanda ne partorisce un’altra: come sono relazionati i due oggetti? Come passa l’informazione dall’Io Noumenico a quello Fenomenico? Fino a prova contraria, perché ci sia un evento nel mondo fisico deve esserci una causa naturale. Come fa l’immateriale Io Noumenico, svincolato dalle leggi naturali causali, a produrre una causa naturale, cioè una certa configurazione neuronale del cervello, in grado di determinare la decisione dell’Io Fenomenico?

La mia terza perplessità è ben espressa da questa domanda: come affiora la volontà dal mare ignoto della cosa in sé senza tempo e senza spazio? Come avviene il processo di deliberazione in assenza di tempo? E’ qualcosa che affiora ‘casualmente’ e istantaneamente dall’Io Noumenico? In questa situazione la deliberazione sarebbe in balia della mera casualità che della libertà è, in verità, la negazione.

Oppure, e questo penso sia quello che Kant vuol dire, l’ordine razionale nel mondo noumenico non ha niente a che fare con l’ordine del mondo fisico cui siamo abituati. In questo caso, un tipo di razionalità nuova, sconosciuta e inconoscibile, governerebbe l’affioramento della determinazione noumenica. La libertà allora, sarebbe garantita da un particolare tipo di causalità che non è la causalità degli eventi descritti dalle scienze della natura. Ne consegue che la deliberazione della volontà noumenica non può tener conto dei fattori esistenti nel tempo come le esperienze passate, l’istruzione ricevuta, l’ambiente e l’assetto biologico dell’oggetto fenomenico. La volontà ha allora un’origine ignota, misteriosa, trascendentale, divina.

Quella che chiamiamo volontà umana è quindi ‘la volontà di Dio’? La responsabilità quindi risale sempre a Dio? Da spinozista io risponderei, sì è così. Spinoza, infatti, dice che ogni singolo pensiero è una manifestazione o rappresentazione del pensiero della sostanza, cioè Dio. Kant scrive invece: ‘due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me’. Appunto, il cielo stellato (estensione) e la legge morale (pensiero), due cose, secondo la sua interpretazione, distinte e separate . Per Spinoza, invece, non ci sono due cose, ma una sola cosa, Dio, che si manifesta sia nel cielo stellato, sia nella legge morale. La soluzione di Spinoza risolve uno dei maggiori problemi con cui si è misurata la teologia cristiana: il tentativo di conciliare il libero arbitrio dell’uomo con l’onniscienza e onnipotenza di Dio. Risolve anche il problema della trasmissione dell’informazione tra i due oggetti. Infatti, il corpo fenomenico (strutture cerebrali) ed il pensiero noumenico essendo manifestazioni della stessa ‘Cosa‘, non hanno alcuna necessità di connettersi per scambiare informazioni perché sono eternamente connessi e eternamente informati l’uno dell’altro.

La tesi di Spinoza trasferisce la libertà a Dio negandola all’uomo e non può pertanto andar bene a Kant che deve promuovere la responsabilità morale. Egli presume la libertà per promuovere la responsabilità basata sull’osservanza di una legge morale assoluta e trascendentale partendo dal timore, infondato secondo me, che la sua assenza apra le porte a una deresponsabilizzazione morale (… proprio oggi, per radio, sentivo il teologo Vito Mancuso che diceva la stessa cosa). Nello stesso momento in cui egli nega la libertà con la ‘ragione teoretica’, deve accettarla con ‘la ragione pratica’.

Il problema che Kant ha affrontato si può riassumere in questa domanda: come posso essere libero quando non sono ovviamente libero? Dopo questa panoramica conosciamo la risposta di Kant: il problema non si può risolvere filosoficamente, ma, al tempo stesso, trattandosi di un problema centrale, deve essere risolto anche ricorrendo a tesi contraddittorie. Si può accettare un concetto contraddittorio? Io credo di no, altrimenti dovremmo convivere anche con la teiera volante e l’unicorno invisibile rosa.

In fin dei conti cos’è questa benedetta ‘responsabilità’ che costringe Kant a questi contorcimenti mentali? Pur ammettendo che la naturale lotta per la sopravvivenza crei infiniti conflitti, io non credo che ‘la radice del legno storto dell’umanità sia malvagia’ . Credo invece che la coscienza morale si sia formata nei corso di decine di millenni secondo i principi dell’evoluzione della specie. Per l’uomo primitivo c’erano precisi vantaggi per la sopravvivenza nella cooperazione, empatia, compassione fra i membri della specie. Così si è formata la coscienza morale che stempera la lotta per la sopravvivenza e la forza violenta del ‘conatus‘.

Un’ultima considerazione più terra-terra: io sono quello che prende le decisioni e che compie le azioni. Se le mie azioni sono problematiche per gli altri, io sono la fonte del problema e gli altri prenderanno misure per risolvere il problema. Non è che abbiano molta scelta… se il risultato dei miei processi mentali rende difficile la vita di altri, sarò io a essere incolpato, recluso, mandato in psicoterapia o preso a calci. L’esperienza poi eventualmente modificherà in meglio i miei processi mentali e mi spingerà a una vita sociale più equilibrata insomma ad essere più responsabile ma non nel senso della responsabilità kantiana.

La parola ‘responsabilità’ nel senso kantiano è uno specchietto per le allodole perché è tanto mal definita quanto inutile (citazione).

Luigi Di Bianco

ldibianco45@gmail.com