
Alla morte di Spinoza l’Etica restò manoscritta ed il grande filosofo non conobbe il destino di una delle opere più controverse e feconde della storia della filosofia, vero e proprio flagello per le sorti della filosofia imperante e della religione consolidata. L’opera fu pubblicata a cura di alcuni amici che, recuperato il contenuto della scrivania di Spinoza, si adoperarono, in gran segreto, per dare alle stampe i suoi scritti nel volume ‘Opera posthuma’. Si narra che agenti di Roma si aggirassero in quei giorni per Amsterdam nel tentativo di intercettare i manoscritti e, ovviamente, bruciare tutto. Si potrebbe romanzare la vicenda per farne un bel film nello stile del “Da Vinci Code”.
L’Etica fu subito sommersa da critiche o, piuttosto, da accuse virulente in nome della moralità, della pietà e della religione ma anche come reazione all’invito di Spinoza a condannare la fissità e la parzialità di ogni punto di vista unilaterale e dogmatico. Gli avversari più accaniti e intransigenti, tutti quelli che hanno esecrato Spinoza nei secoli, erano ben consapevoli del potenziale esplosivo del suo pensiero. Se, come scriveva lo scrittore e il filosofo tedesco G. Lessing, per tanto tempo Spinoza è stato trattato ‘wie ein toter Hund’, cioè come un cane morto, coloro che lo accusarono di ateismo e gli hanno mosso una guerra implacabile, sapevano bene che la filosofia spinoziana era inattaccabile dalle critiche della sola ragione.
Un anno dopo la morte di Spinoza, Leibniz, in una lettera a Tschirnhaus, definisce l’Etica un libro pericoloso per le persone in grado di capirlo:
“ […] Le opere postume dello scomparso Spinoza sono state infine pubblicate. La parte più importante è l’Etica, composta da cinque trattati. Vi ho trovato numerosi pensieri eccellenti con cui concordo, come sanno alcuni dei miei amici che hanno anche appreso da Spinoza. Ma ci sono anche paradossi che non trovo veri o plausibili […] che la nostra mente non percepisce nulla dopo questa vita; che tutto accade per una specie di necessità fatale; che Dio non agisce secondo fini ma solo per una certa necessità di natura. Ciò significa negare di fatto la provvidenza e l’immortalità. Io considero questo libro pericoloso per quelli che vorranno prendersi la cura di padroneggiarlo: poiché gli altri non faranno lo sforzo di capirlo” (Leibniz, lettera a Ehrenfried Walther Tschirnhaus, 1678
Le accuse di Leibniz e di altri erano incentrate sulla ‘sua opposizione agli assiomi più evidenti e più universali che siano stati finora accettati’ cioè ai dogmi della religione cristiana.
Gli argomenti di ordine logico nella critica a Spinoza sono sopraffatti e messi in ombra dagli argomenti di ordine morale, religioso ed estetico ispirati dalla necessità di garantire il primato del sentimento, del cuore e dell’immaginazione superstiziosa sulla ragione, oltre che di salvaguardare l’ordine morale e la religione imperante.
Nel capitolo su Spinoza del Dizionario storico critico, pubblicato venti anni dopo la sua morte, così il filosofo francese Pierre Bayle esprime la sua critica: “ Tra l’ipotesi spinoziana e quella cristiana […] bisogna optare per quest’ultima perché presenta il vantaggio di prometterci grandi beni per l’avvenire, lasciandoci grandi risorse consolanti nelle infelicità di questa vita. Nelle miserie, infatti, quale consolazione è più grande di quella di lusingarsi che le preghiere che indirizziamo a Dio saranno esaudite e che in ogni caso egli terrà conto della nostra pazienza per darcene poi una splendida ricompensa? E’ certamente una grande consolazione anche poter fare affidamento sul fatto che gli altri uomini conferiscono una certa importanza alla voce della loro coscienza e al timore di Dio: ciò significa che l’ipotesi comune (quella cristiana) è più vera e più comoda di quella dell’empietà”
Più comoda, senz’altro … ma perché sarebbe anche più vera? Bayle afferma che la religione cristiana è da preferire perché ci consola nelle avversità e ci fa sperare nella bontà e provvidenza divina. Ma da qui a dire che è più vera dell’ipotesi spinoziana ce ne passa. Non è il caso, tuttavia, di chiedere troppo rigore logico a un autore che, sensibile al bisogno di consolazione, subordina la regola filosofica a quella teologica e che da teologo è più preoccupato delle comodità e dell’utilità di una tesi che della sua verità.
Ma l’affermazione che lo spinozismo non offra alcuna consolazione è assolutamente falsa. Tutta l’Etica si dipana lungo un filo logico che si conclude con il conseguimento della consolazione suprema, l’amore intellettuale di Dio, unico sentimento in grado di sovrastare le passioni umane e, quindi, di garantire la serenità, se non la felicità, dell’animo.
Occupiamoci prima però dell’accusa di ateismo, assolutamente infamante a quei tempi, rivolta a Spinoza.
Cos’è l’ateismo?
Dalla Treccani: “Ateismo:negazione esplicita e consapevole dell’esistenza di Dio (dal gr. ἄϑεος «senza Dio»). Ora la Parte Prima dell’Etica ha un titolo semplice e conciso: ‘De Deo’, cioè ‘Dio’. La prima cosa che fa Spinoza in questa prima parte è quella di dimostrare l’esistenza di Dio. Nella quinta e ultima parte dell’Etica è introdotto il concetto di amore intellettuale di Dio. Nell’ultima proposizione, Spinoza scrive: “La beatitudine consiste nell’Amore verso Dio […]” (E5XLII). In pratica tutto il pensiero di Spinoza parte da Dio e si chiude con Dio. Come scrive Leibniz: “Il libro di Spinoza è su Dio, l’uomo e la felicità … Spinoza comincia con Dio e finisce con Dio”. Da dove viene fuori allora l’accusa infamante, per quei tempi, di ateismo?
E’ evidente che per i critici di Spinoza la definizione di ateismo è diversa da quella della Treccani. Per costoro sono atei tutti quelli che dissentono dalla concezione religiosa dominante propriamente detta ‘teismo’. Il teismo descrive la concezione classica di Dio che si trova nel Cristianesimo, Ebraismo, Islam e afferma l’esistenza di un Dio trascendente, personale e provvidenziale. Il Dio del teismo è trascendente perché esiste oltre il Mondo, è personale perché dotato di sentimenti, come l’amore e la compassione, e di una volontà simile alla volontà umana. In quanto personale e dotato di volontà, Dio interviene nel Mondo con i miracoli e il dono della grazia per raggiungere un suo obiettivo finale: la salvezza dell’uomo.
In questo senso, non ci sono dubbi, Spinoza è ‘ateo’. Infatti, Spinoza non concepisce Dio come persona e come creatore. Per Spinoza Dio non è trascendente ma immanente perché essendo assolutamente infinito non può ammettere niente al di fuori di se; Dio non ha sentimenti umani come amore, rabbia, compassione ma è mosso solo dalla necessità della sua perfezione; non ha un obiettivo da perseguire, perché essendo già perfetto così com’è, non può tendere a un grado di perfezione superiore tramite il conseguimento dell’obiettivo prefissato.
Dal mio punto di vista, il Dio umanizzato del cristianesimo non è un vero Dio ma una divinità di comodo inventata dall’uomo per soddisfare assurde e irragionevoli pretese come quella di essere immortali e di poter determinare, con preghiere e suppliche, l’infinita potenza e intelligenza di Dio. Da questa prospettiva potrei ritorcere l’accusa e dire che è il cristianesimo a essere la vera dottrina atea. Si tratterebbe della forma di ateismo più volgare e pericolosa: “… l’ateismo di coloro che credono nella trascendente divinità e che con invocazioni e offerte, osservandone i riti, credono di poter averla propizia e tutto permettersi. Ed è una forma di ateismo molto diffusa nel mondo cristiano e nel nostro Paese diffusissima. E’ un rapporto di corruzione che si instaura con Dio, quasi che Dio fosse un’entità simile a un ministero” (Leonardo Sciascia rifacendosi a Platone, La Repubblica, 12 gennaio 2014). Una forma di ateismo “diffusissima nel nostro Paese” in modo particolare in alcune regioni del Sud dove malfattori, farabutti e disonesti ritengono di essere in una specie di “associazione mafiosa” con Dio. Si spiega così come mai spietati assassini, mafiosi e criminali continuano a definirsi credenti e cristiani.
Secondo me, invocare Dio con la preghiera per ottenere favori equivale a bestemmiare. In questo concordo con Voltaire: “ […] osare attribuire a Dio dei miracoli significa, in effetti, insultarlo (ammesso che degli uomini possano insultare Dio): è come dirgli “voi siete un essere debole e volubile“. (Voltaire)
Ma bando alle polemiche: procediamo con ordine andando a leggere direttamente la prima parte dell’Etica. Come sai, non ho studiato filosofia a scuola e, da profano, sono rimasto subito impressionato e intimidito dalla terminologia filosofica secentesca. Essenza, sostanza, esistenza, cosa in sé, concepita per sé, causa sui, ecc … mi sono apparsi termini incomprensibili e sono stato, varie volte, tentato di lasciar perdere. Adesso, nel ripercorrere il pensiero spinoziano su Dio, mi propongo di usare un linguaggio semplice, comprensibile per chiunque abbia un minimo di curiosità e costanza. Vediamo se ci riesco.
L’Etica comincia così: “Per causa di sé intendo [ … ] “ (E1DI)
Esiste qualcosa che può essere causa di sé? Gli esseri, sia animati sia inanimati, hanno bisogno di qualcos’altro per esistere. Ogni ente particolare ha bisogno, infatti, di una causa esterna che ne determini l’esistenza. Per esempio Luigi ha una causa prossima: i propri genitori; cause più lontane: i nonni, i trisnonni; cause remote: un certo ominide, un organismo unicellulare nel brodo primordiale, ecc. Dove si ferma la catena di causalità? In altre parole, quando finiscono i lavori di scavo? C’è una causa prima che determina l’esistenza di Luigi oppure la catena causa-effetto va indietro all’infinito? E se esiste una causa prima essa è causa di se stessa oppure non è causata da niente? La differenza fra le due formulazioni non è irrilevante: infatti, ciò che è causa di sé impone positivamente l’esistenza e, quindi deve esistere necessariamente. Questo è un punto fondamentale della filosofia spinoziana.
La Definizione I dell’Etica dice, infatti: “Per causa di sé intendo ciò la cui essenza implica l’esistenza, ossia ciò la cui natura non può essere concepita se non come esistente“ (E1DI).
Si dice che per il novanta per cento dei lettori il rapporto con l’Etica di Spinoza termini proprio qui, alla lettura della prima definizione. Anche Luna, la mia amata gattina, che fino ad ora era stesa di fianco al monitor si è alzata, si è stiracchiata, mi ha guardato con un’espressione di commiserazione come per dire “Poveraccio … è fuori di testa” ed è andata via sdegnata. E’ la parola “essenza” che scoraggia i potenziali lettori? Anch’io la prima volta che ho incontrato la parola essenza mi sono chiesto quale fosse il suo significato.
Dalla Treccani: “Essenza: la natura propria e immutabile delle cose”. Per esempio, la natura propria e immutabile del triangolo consiste nel fatto che è formato da tre angoli e tre lati e che la somma degli angoli interni è uguale a 180 gradi. Possiamo disegnare un’infinità di triangoli tutti diversi tra di loro eppure ciascun triangolo avrà la natura propria e immutabile appena descritta.
Ora se Spinoza dice che l’essenza di una cosa è l’esistenza vuol dire semplicemente che quella cosa deve esistere per forza e per sempre, cioè eternamente. Questo avviene perché l’essenza così precisata esclude che la cosa in questione debba costituirsi discorsivamente in un tempo sia pure concepito senza principio e senza fine. Insomma nella cosa la cui l’essenza implica l’esistenza sono esclusi il tempo e la durata. Essa è fuori del tempo, o per dirlo con altre parole, è nell’eterno presente. Anche se non è detto esplicitamente, possiamo già intuire che la cosa causa di sé non è altro che Dio. Ma andiamo avanti con la Definizione III.
“Per sostanza intendo ciò che è in sé ed è concepito per sé: ossia ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa dal quale debba essere formato” (E1DIII)
Per il momento lasciamo stare il significato di “sostanza” e cerchiamo di capire cos’è una cosa che “è in sé” e che “è concepita per sé”.
Se dico che una cosa “è in sé “, voglio dire che è tutta in se stessa, ossia non dipende da altro che sia esterno a essa. Per esistere ed essere, la cosa in sé non alcun bisogno di appoggiarsi e riferirsi a un’altra cosa. Abbiamo noi esperienza di cose in sé? Proviamo a pensare: la tastiera che sto usando è cosa in sé? Ovviamente no, la tastiera è stata fatta dalla Logitech e per funzionare ha bisogno delle batterie; il pino che vedo al limitar del bosco è cosa in sé? No, perché dipende inizialmente dal seme da cui è germogliato e in seguito dagli infiniti fattori ambientali che lo determinano. Luigi è una cosa in sé? No, perché è stato generato dall’incontro di uno spermatozoo e un ovulo e dipende da fattori esterni e interni che lo modificano in continuazione. La luna, il sole, le stelle sono cose in sé? No, perché tutti corpi celesti sono stati causati dall’evoluzione cosmica e sono dipendenti da relazioni reciproche. Che cosa è allora LA cosa in sé? Lascio la domanda in sospeso e passo al concetto di “cosa concepita per sé”.
Se dico che una cosa è “concepita per sé”, voglio dire che quando penso a questa cosa non devo rifarmi ad altre cose per comprenderla. Qui abbiamo a che fare con la necessità di conoscere le cause di una cosa per poter dire che veramente la conosciamo (scire est scire per causas, conoscere significa conoscere attraverso le cause). La luce prodotta dalla lampadina che illumina la mia stanza può essere concepita per sé? In altre parole, la natura della luce elettrica può essere compresa senza aver un’idea di come e perché si riscalda il filamento della lampadina che produce la luce? Ovviamente no, quindi la luce della lampadina non è una cosa concepita per sé. Luigi può essere concepito per sé? Assolutamente no, perché il mio corpo e la mia mente non trovano spiegazione all’interno di me, in me stesso. Il mio corpo e la mia mente sono così come sono per tutta serie di eventi, incontri, scontri, rapporti, influenze, ecc … che costituiscono la mia storia. Esiste UNA cosa che può essere concepita per sé?
Non giriamoci intorno, è ora di tirare le somme e dire che LA cosa che è “in sé”, che è “concepita per sé” e che è “causa di se stessa” è la “sostanza”, cioè Dio. La definizione VI chiarisce infatti che la sostanza è Dio:
“Per Dio intendo l’ente assolutamente infinito, cioè la sostanza che consta di infiniti attributi, ognuno dei quali esprime un’essenza eterna e infinita” (E1DVI)
Analizziamo la definizione. C’è un Dio, o sostanza, assolutamente infinito che è formato da un numero infinito di attributi ciascuno dei quali è a sua volta infinito. Questi infiniti all’interno di altri infiniti fanno girare un po’ la testa. Cerchiamo di capirci qualcosa con qualche esempio. Una retta, essendo illimitata in entrambe le direzioni, contiene infiniti punti, ed è infinita. Anche il piano, illimitato in tutte le direzioni, è infinito e, al tempo stesso, contiene un numero infinito di rette infinite. Ora, se io dico che il piano è “assolutamente infinito” voglio dire che deve esisterne solo uno e che, quindi, l’infinito numero di rette sono riferibili e contenute nell’unico piano in questione. Esiste un solo piano, non c’è nessuna retta fuori del piano, anzi il piano è tutto quello che c’è.
Torniamo alla definizione di Dio e sostituiamo “piano” con “sostanza”: se la sostanza è assolutamente infinita, allora essa è tutto quello che c’è perché, non esistendo alcun “fuori” rispetto a essa, non può esserci alcuna realtà all’esterno di essa. Per esempio, se Dio è assolutamente infinito, il concetto, proprio del teismo, di creazione e di creato esterno a Dio non è ammissibile. “Tutto ciò che è, è in Dio”.
Qual è allora la realtà del Mondo? Il Mondo, o “estensione” in termini filosofici, è uno degli infiniti “attributi” di cui consta la sostanza. Tornando all’esempio delle rette e del piano, l’estensione può essere assimilata a una delle infinite rette contenute nel piano. A questo punto occorre chiarire cos’è un attributo. Abituati dall’analisi grammaticale insegnata alle scuole elementari, verrebbe subito da identificare attributo con aggettivo. Un attributo, in grammatica, è infatti un aggettivo che specifica una qualità o una caratteristica di qualcosa. Diciamo, per esempio, che il cielo è azzurro e il mare tempestoso. Cambiando l’aggettivo non si modifica la natura della cosa descritta: sia che sia calmo, sia che sia tempestoso, il mare non cessa di essere mare. Gli attributi di Dio, a differenza degli aggettivi, sono immutabili: devono essere sempre gli stessi perché caratterizzano l’essenza della sostanza e ne definiscono la natura.
“Per attributo intendo ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua stessa essenza” (E1DIV).
L’intelletto percepisce l’attributo come costituente la natura (o essenza) della sostanza. L’attributo allora è una costruzione operata della mente umana? Assolutamente no: la mente “percepisce” e riconosce qualcosa che s’impone nella sua evidenza, per esempio, il Mondo, l’Universo o l’estensione. Ma degli infiniti attributi della sostanza quanti ne riesce a percepire la mente umana? Solo due. Uno è l’estensione, l’altro è il pensiero. Delle infinite rette che giacciono nel piano assolutamente infinito ne sono riconoscibili solo due. E le altre rette? Ci sono, in numero infinito, ma non sono percepibili per le nostre povere capacità sensoriali e intellettive.
L’estensione e il pensiero, come tutti gli attributi di Dio, sono da considerare come indivisibili ed eterni (non si costituiscono nel tempo). Come la mettiamo allora con i corpi finiti (il corpo di Giacomo, di Ciro, il sole, una mosca, un sasso, …) e i pensieri finiti (quelli che Giacomo e Ciro hanno pensato nell’ultima ora) che sperimentiamo nella vita di ogni giorno? Limitandoci all’estensione, è evidente che l’universo è pieno di corpi corruttibili e finiti che si limitano a vicenda nello spazio tempo. Se “tutto ciò che è, è in Dio” come s’integrano i corpi finiti e mortali nell’infinito ed eterno della sostanza e dei suoi attributi? O anche, come si introduce nell’eterno e nell’immutabile di Dio la trama del tempo e della finitezza?
Queste questioni costituiscono, secondo me, lo snodo cruciale della filosofia spinoziana.
Nella terminologia dell’Etica, la realtà finita e peritura, i corpi concreti, le cose materiali che, tramite la percezione, cadono sotto la nostra esperienza sono chiamati “modi”.
“Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia quello che è in altro per mezzo del quale è anche concepito” (E1DV).
Nel linguaggio comune “affezione” equivale a sentimento di affetto, in questo caso però non è così: un’affezione deve intendersi coma una modificazione. I modi sono i singoli corpi (modificazioni dell’estensione: il corpo di Giacomo, di Ciro, il sole, una mosca, un sasso, …) e le singole idee (modificazioni del pensiero: quelli che Giacomo e Ciro hanno pensato nell’ultima ora). La definizione dice anche che il modo è “ciò che è in altro”. In questo senso i modi (i singoli corpi e le singole idee) non sono in sé, né possono essere concepiti per sé. Possono essere concepiti soltanto in virtù di Dio che è sostegno e causa di ogni realtà. Se ogni modo finito è prodotto da un altro modo finito, allora possiamo immaginare l’universo come un’infinita catena di anelli di causa-effetto. Sappiamo che la causa efficiente o prossima di Ciro non è Dio ma i suoi genitori e potremmo pensare, erroneamente, che Dio, andando indietro nella catena causale, sia invece la causa prima di Ciro. Questa idea è sbagliata perché non tiene conto dell’a-temporalità di Dio. Dobbiamo immaginare che nell’infinita catena di anelli di causa-effetto, Dio non è il primo o l’ultimo anello della catena … ma … è la catena stessa!!!
Riassumendo, si possono individuare tre figure fondamentali dell’ontologia spinoziana come sono presentate dai testi divulgativi dello spinozismo: (1) la sostanza, cosa in sé e concepita per sé, intesa come la totalità degli attributi; (2) gli attributi stessi che non hanno un’esistenza autonoma e separata da quella della sostanza, ma ne esprimono l’essenza; (3) i modi che non esistono da sé e in se stessi, ma sono finiti, contingenti e precari.

Questo modo di presentare e descrivere l’ontologia spinoziana è totalmente sbagliato e fuorviante. Non c’è alcuna separazione fra sostanza, attributi e modi: tutto è Dio, cioè una Totalità indivisibile ed eterna. Questa è un’immagine più corretta.

Ma come, dirai, i modi esistono e si modificano (divengono) nel tempo, la loro stessa esistenza si dipana discorsivamente nella durata, com’è possibile introdurli nell’immutabile e nell’eternità che non prevede né il tempo, né la durata?
La mia risposta è che ogni istante dell’esistenza di un corpo (come quello di Giacomo e di Ciro, del sole, della mosca e del sasso) è esistente, immobile, nell’eterno presente di Dio. Il mio nascere e il mio morire non modificano niente nella costituzione del Tutto, semplicemente perché il mio nascere, il mio morire, sono da sempre e per sempre nel Tutto indivisibile ed eterno.
E’ solo la struttura della nostra limitata sensibilità a farci veder la separazione e lo scorrere del tempo. Se io potessi contemplare il mondo materiale e non materiale nella sua totalità ed eternità, se potessi indossare gli occhiali di Dio, allora coglierei la mirabile perfezione del tutto. Intuirei anche la mia esistenza come elemento particolare, forse poco rilevante ma essenziale della struttura del Tutto indivisibile. Basta pensare che senza il mio essere il Tutto o Dio sarebbe diverso da quello che è, cosa questa assolutamente assurda.
Tutto ciò che appare come bene o male o imperfezione, dipende dalla nostra immaginazione che dà un’interpretazione soggettiva e non coglie il mirabile ordinamento del tutto che, essendo perfetto ed eterno, esclude il tempo e la durata. Il movimento che noi cogliamo nello scorrere del tempo è solo dovuto all’interpretazione che i nostri sensi e la nostra coscienza danno della Realtà.
Noi percepiamo le singole cose del pensiero e dell’estensione, cioè i modi, come contingenti, imperfetti e perituri ma l’insieme, la totalità dei modi nell’eterno presente è perfetta e immobile come perfetto e immobile è Dio. Detto in altro modo: tutto quello che c’è è un unico Individuo indivisibile, le cui parti, cioè tutti i corpi, appaiono, o sono da noi percepiti, in continuo mutamento senza che vi sia alcun effettivo mutamento e movimento dell’Individuo nella sua totalità.
Viene spontaneo a questo punto dire: Ok, d’accordo, l’eternità di tutti gli istanti e la totalità indivisa possono essere idee suggestive e affascinanti ma sono solo astrazioni che non tengono conto della realtà fatta di tempo che scorre e corpi separati. Io stesso la pensavo così fino a quanto non ho approfondito la teoria della relatività e la meccanica quantistica. Queste due teorie ci offrono una visione scientifica di com’è fatto il mondo che giustifica pienamente l’ontologia spinoziana. Le vere astrazioni sarebbero allora il nostro concetto di presente come la sola realtà ed anche l’operazione con cui noi separiamo dal Tutto le realtà finite, noi stessi, i corpi concreti, le cose materiali che cadono sotto la nostra esperienza. “E’ proprio il senso comune ad essere la forma estrema, ed al tempo stesso estremamente inconsapevole, di astrazione. E’ la nostra percezione del mondo come diveniente molteplicità frantumata ad essere il vero imbroglio perpetrato dalla nostra povera umana sensibilità” (LdB)
Per cercare di spiegare questo concetto poco intuitivo ho spesso citato, nei miei scritti sullo scorrere del tempo, il continuum spaziotemporale della Teoria della Relatività. In effetti, la teoria di Einstein è in grado di farci intuire cosa c’è presumibilmente oltre ciò che le nostre capacità sensoriali riescono a cogliere. A costo di ripetermi, ripropongo alcune citazioni sull’eternità di ogni istante.
Albert Einstein ha scritto: “Per noi fisici, la distinzione fra passato, presente e futuro è solo un’illusione”.
In un’altra occasione: “Siccome nella struttura a quattro dimensioni dello spazio-tempo non è più possibile rappresentare obiettivamente il ”NOW”, l’adesso, i concetti di accadimento e mutamento (divenire) sono, se non proprio completamente sospesi, certamente resi più complicati. Sembra quindi più naturale pensare alla realtà come a un’esistenza quadridimensionale, piuttosto che all’evoluzione (nel tempo) di un’esistenza tridimensionale”.
Kurt Goedel, uno dei più grandi matematici del XX secolo e collaboratore per un certo periodo di Einstein, nel saggio dal titolo “A Remark about the relationship between Relativity Theory and Idealistic Philosophy“scrive:
“Non è realistico pensare che il mondo consista di una serie di attimi indefinibili che, in rapida successione, appaiono e svaniscono dall’esistenza. E’ più realistico pensare che il passato e il futuro esistono permanentemente“.